Anteprima della prima presentazione del servizio “Padova”
PADOVA
Le radici nel tempo
Padova in una sfera di vetro. Immaginiamola così, in una di quelle boccette che si agitano per veder comparire, in un turbine di neve, il riassunto di una visione idealizzata. Ci appare un’istantanea che compendia terra e cielo, un piccolo universo rilucente di piazze e di chiese, un pullulare di mestieri antichi e di modernissime competenze, un andirivieni di traffici e di spostamenti. Ma guardando bene, ci accorgiamo che l’immagine non è statica: come in un caleidoscopio, colori e significati si combinano in successive soluzioni. E la scena cambia, virando dal grande al piccolo, dalla frenesia alla quiete, dall’opulenza alla parsimonia, dalla tradizione al futuribile. All’ombra dei portici, fra un’arcata e l’altra, si disegna il profilo di una città “confidenziale”, che sa accogliere e blandire, talvolta anche sedurre, ma non si presta mai a una facile giovialità. Perché Padova sa essere intima e amichevole, ma non “piaciona”, e perciò si lascia avvicinare e amare con oculatezza, quasi con circospezione, talvolta diffidente e neghittosa come una creatura selvatica, altre volte con la bonarietà di chi ne ha viste tante e preferisce scansare orpelli e riverenze.
Forse bisogna partire da qui, o magari da un’immagine ovattata di nebbie che ormai sono soltanto un ricordo, per ritrovare – ammesso che ne esista una sola – la chiave d’accesso, l’idea della patavinitas. Perché è di questo che si tratta, quando lo sguardo si proietta in alto, fra le cupole e i falsi minareti di Sant’Antonio, scivola sugli specchi argentei del Pedrocchi, indugia sull’agonia delle anime dannate ritratte da Giotto agli Scrovegni o si lascia accarezzare dall’esotismo vegetale dell’Orto Botanico: si percepisce che questa città conserva un’anima non casuale, ma coltivata nel tempo e nello spazio, ancora oggi ben viva e abbarbicata alle proprie origini. Ecco perché si parla di radici, fin dal titolo del ritratto fotografico che di Padova ci consegna Federico Meneghetti: tutto ciò che oggi è e comunica di essere questa città è frutto di sedimentazioni, di un vincolo sentimentale e materiale che affonda in questa terra ben più di quanto possa apparire.
Un vincolo che si esprime in uno stile di vita, in una lingua, in un modo di essere, perfino di pensare, che permea cose e persone nate o vissute abbastanza a lungo qui, in questa parte del Veneto, e non, per esempio, in una delle omonime città fondate in epoca recente ai quattro angoli del globo (nel mondo esistono circa venti centri urbani chiamati Padova, Padua o Padoue: ve ne sono negli Stati Uniti, in Argentina, Brasile, Canada, Colombia, Australia, Nuova Zelanda, perfino in Mozambico e nel Bangladesh).
Alla fine del Settecento, Goethe descriveva la città come «Alberi sopra alberi, cespugli sopra cespugli, case bianche a non finire che occhieggiano tra il verde». Anche oggi che Padova è cambiata, soprattutto dal dopoguerra, in una combinazione di antico e di nuovo che riesce a far convivere – non senza difficoltà – il reticolato delle vie medievali e le trafficatissime tangenziali, le biciclette delle piazze e l’avveniristico Metrotram, l’identità architettonica del centro storico e il disordinato accumulo delle attività produttive nella cintura urbana, questa atmosfera, questa immagine semplice e quasi bucolica, a tratti, emerge ancora. E si ritrova soprattutto la mattina presto, quando ancora botteghe e caffè non sono gremiti di clienti, o nei silenzi, nella luce lattiginosa di certe giornate d’inverno cariche di promesse di neve che quasi mai si realizzano. O magari nell’idea di campagna che emerge inaspettata in molte zone di Padova (a Voltabrusegana, al Forcellini, alla Mandria, perfino lungo la trafficatissima via Vicenza), dietro la svolta di un argine o al termine di un quartiere: all’improvviso ci si trova circondati da filari di viti e campi di frumento, da piccole case rurali rallegrate da pergole e macchie d’alberi, a testimonianza del fatto che i ritmi e le modalità della dimensione urbana, in questa città, non ne hanno estirpato completamente il rapporto con la terra e i suoi frutti.
Può anche trarre in inganno, Padova, quando si traveste da città omogenea, quasi liquida nel suo essere avvolgente (non a caso è stata ed è ancora oggi città d’acque, nonostante gli scriteriati interramenti degli anni Cinquanta, perpetrati in nome della modernità), ma che in realtà sa metabolizzare contrasti e giustapposizioni talvolta aspre all’interno di un sistema forte di valori, o forse, più semplicemente, nel raggio d’azione di un’idea di comunità ben strutturata e percepibile ancora oggi, dopo oltre tremila anni di storia.
Una città che sa essere al tempo stesso madre e matrigna, irta com’è di contraddizioni: accoglienza e chiusura, solidarietà e affari, devozione cattolica e laicità culturale, arguzia e ingenuità, alterigia e sense of humour. Anime diverse che si confrontano anche dal punto di vista architettonico e urbanistico: che contrasto, fra la Padova monumentale delle piazze, della basilica di Santa Giustina, dell’Arena Romana, dei nobili palazzi del centro storico, della Specola e del Castello Carrarese, e quella di zone recondite come piazzetta san Michele, le riviere o il Portello, antico porto fluviale e vera enclave culturale e linguistica.
E forse proprio nella dissonanza sta uno dei segreti del fascino di una città in cui l’intreccio delle viuzze del ghetto o la occulta esistenza dietro cancelli e inferriate di cortili interni, chiostri e giardini riescono a convivere con il perentorio, luminoso spazio aperto del Prato della Valle, la piazza con un’isola nel mezzo, una delle più belle per gusto scenografico e originalità dell’impianto. Quasi un luogo dello spirito, che D’Annunzio ne Le Città del Silenzio cantava così: «nel tuo prato molle, ombrato d’olmi/e di marmi, che cinge la riviera/e le rondini rigano di strida,/ tutti i pensieri miei furono colmi/d’amore e i sensi miei di primavera,/come in un lembo del giardin d’Armida».
Suggestioni, incanti poetici. Ma Padova è soprattutto città di pietre e di ingegni, che può vantare prestigiosi primati, come l’Orto botanico universitario più antico (1545), una delle più autorevoli università (fondata nel 1222, settima del pianeta e, in Italia, seconda soltanto a Bologna), una delle più ampie sale pensili (è il Salone, gigantesca macchina scenica, amministrativa e commerciale della città eretta nel 1218 e istoriata da un grandioso ciclo di affreschi a soggetto astrologico), oltre alla più estesa piazza d’Italia (il Prato della Valle). Città di assenze, Padova – il Santo senza nome, il Caffè senza porte, il Prato senza erba… – , ma soprattutto di presenze, di personalità che nel corso dei secoli, dall’arte alla scienza, dallo sport alla letteratura, le hanno dato gloria, fascino, identità. A cominciare da Antenore, mitico fondatore della città che riposa oggi di fronte alla Prefettura, anche se la “sua” tomba contiene in realtà soltanto le spoglie di un guerriero germanico, come ben sapeva Lovato Lovati, il dotto letterato che diede inizio alla leggenda del principe troiano.
E poi, in una carrellata che attraversa il tempo, lo storico Tito Livio, i Carraresi, Angelo Beolco detto il Ruzzante, Galileo Galilei (scienziato pisano che a Padova trascorse «li diciotto anni migliori di tutta la mia età»), Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, la prima donna laureata della storia, proclamata magistra et doctrix in philosophia nel 1678. La sequenza di illustri padovani può continuare con Giovanni Battista Belzoni scopritore di mondi, o con Arrigo Boito, letterato e compositore, fino ad arrivare al Novecento, alle gesta del rettore del Bo’ Concetto Marchesi, che il 9 novembre 1943 lanciò agli studenti un appello a prendere le armi contro l’oppressione nazi-fascista, o del giusto fra i giusti Giorgio Perlasca, che a Budapest, fingendosi diplomatico, salvò migliaia di ebrei, per poi raggiungere i giorni nostri, con il regista Carlo Mazzacurati, il pilota Riccardo Patrese, lo scrittore Massimo Carlotto, gli artisti Maurizio Cattelan o Rabarama. Ma ci sono anche altre presenze, forse meno universalmente note, eppure visceralmente legate alla memoria e alla sostanza della città. Personaggi che i padovani amano o hanno amato per la loro rappresentatività, per la loro capacità di identificarsi con il genius loci della città, presenze reali, talvolta idealizzate o anche soltanto immaginarie, che contribuiscono alla definizione della storia materiale di questi luoghi.
Ogni padovano potrebbe comporre il proprio ideale “album di famiglia”, in cui collocare immagini vecchie e nuove: la Gaetana con la sua bicicletta senza pedali, i porteati dall’intraducibile idioma, la gallina padovana (dopo l’uomo il più famoso bipede della provincia, insieme alla nobile sorella di Polverara), o magari Gioachino Bragato, cuoco del Pero dei tempi d’oro e da sempre pittore naif e coscienza critica della città, il paròn Nereo Rocco, che dava lustro all’Appiani (la mitica Fossa dei Leoni) così come al tempio culinario di Cavalca, oppure, per chi lo avesse intravisto, il Nane Oca immaginato da Giuliano Scabia, che in silenzio scivola sui tetti per andare a raggiungere l’amata. Senza dimenticare naturalmente il personaggio più caro a tutti i padovani: Fernando Martim de Bulhões e Taveira Azevedo, meglio conosciuto come Sant’Antonio da Padova, il frate taumaturgo che ogni 13 giugno vive la sua epifania lungo le strade che da Camposampiero lo portano in processione a una delle basiliche più visitate del mondo.
Come tutte le città dalla storia millenaria, Padova offre chiavi di lettura formidabili e diseguali, che consentono approcci diversi alla città, magari sulla falsariga dei cinque sensi. Affidandosi alla vista, innanzitutto: lo sguardo può spaziare dalle incisioni di Tono Zancanaro e Albino Palma alle architetture razionaliste di Quirino De Giorgio, dalle miniature vergate sugli antichi manoscritti dell’abbazia di Praglia alle carte geografiche a testa in giù della Sala Rossa del Pedrocchi, fino ad arrivare a quell’inarrivabile patrimonio di “pareti parlanti” realizzato nei secoli da Giotto, Guariento, Giusto de Menabuoi, Mantegna, Tiziano, Campagnola, Hayez, Giò Ponti, Campigli.
E poi l’udito. Esistono rumori e suoni che identificano la città: i richiami dei mercanti di Prato della Valle, il rintocco della campane delle sue mille chiese, le esecuzioni dei Solisti Veneti (magari il Trillo del Diavolo di Giuseppe Tartini o una sinfonia per fortepiano, strumento inventato nel 1707 da un altro padovano, Bartolomeo Cristofori), le note di jazz che zampillano ogni sera dai locali del ghetto. Magari qualcuno ricorderà il lunare robivecchi che fino a un paio di decenni or sono, dal suo carrettino, invitava sonoramente i concittadini a vendere “corni freschi”, alludendo alle vere o presunte infedeltà coniugali di padovani illustri di cui era a conoscenza.
In questo puzzle sensoriale non può mancare il gusto, che a Padova spazia dalle vette stellate di Massimiliano Alajmo ai “folpi” e alle castagne in piazza, dai bolliti della tradizione al rito degli spritz che affratella il variegato mondo universitario. Così come l’olfatto: la madeleine padovana nasce dagli effluvi primaverili dei tigli in fiore di Città Giardino, dalle fragranze di incenso della Chiesa dei Servi, dagli aromi di funghi, formaggi, pane fresco e salumi del Sottosalone, dall’odore di terra smossa, di erba falciata sugli argini. E infine il tatto, senso a sua volta variamente declinabile a seconda che la mano sfiori il legno grezzo della cattedra di Galileo, il bronzo dell’altare di Donatello, l’oro delle piccole sculture dei maestri della scuola padovana o le morbide superfici delle orchidee dell’Orto Botanico.
Il viaggio a Padova si può fermare o partire da qui, da ciascuna di queste schegge, dall’accostamento di questi frammenti. E intanto, nella memoria, riemerge e acquista nuovi significati ciò che scrisse William Shakespeare ne La bisbetica domata (atto 1, scena prima):
Per il grande desiderio che avevo di vedere la Bella Padova, culla delle arti sono arrivato… ed a Padova sono venuto, come chi lascia uno stagno per tuffarsi nel mare, ed a sazietà cerca di placare la sua sete…
Foto Federico Meneghetti
Testi Marco Bevilacqua
Grafiche, foto 360, virtual tour e tutti i diritti di pubblicazione: Pressprint di Meneghetti Federico